AUTOBIOGRAFIE CREATIVE

AUTOBIOGRAFIE CREATIVE

E se a scrivere la Storia fossero non solo i personaggi, ma anche gli OGGETTI da loro inventati? Vi riportiamo di seguito le “autobiografie creative” di alcuni studenti di 3C.

L’autobiografia è una tipologia testuale in cui l’autore narra la sua vita. In questi testi gli alunni, dopo un’attenta ricerca, si sono immedesimati in alcune INVENZIONI nate durante la Seconda rivoluzione industriale e hanno narrato la propria origine. È un modo per analizzare la Storia attraverso un punto di vista diverso e inusuale, ma molto accattivante ed efficace.

Vi lasciamo alla lettura di questi lavori interessanti.

scritto da Maila Gottardo

“LA MACCHINA FOTOGRAFICA” di Sofia Pizzo, classe 3C, gennaio 2025

Io sono la macchina fotografica più famosa del mondo.
O meglio, una delle foto che ho scattato è la più famosa del mondo. O almeno, così credo.

Sono capace di immortalare un momento, di fermare il tempo dentro di me. Anche se tutto scorre, l’attimo che catturo rimane immobile. Posso far viaggiare le persone attraverso le mie immagini, mostrando loro sia l’orrore della guerra sia la bellezza di un abbraccio.

Sono capace di tutto questo, eppure non sono esposta in un museo. Nessuno sa chi sono. Gli esseri umani non guardano me, ma l’attimo che ho catturato.

La mia foto è diventata un simbolo degli Stati Uniti ed è apparsa innumerevoli volte in televisione. È così perfetta nel ritrarre il coraggio e il cameratismo di uomini in battaglia che il mio miglior amico umano, Joe Rosenthal, fu persino accusato di aver messo in scena lo scatto.

Il 23 febbraio 1945, io e Rosenthal eravamo in mezzo alle macerie della guerra. Volevamo distrarre i nostri pensieri e fare ciò che più amavamo: catturare un attimo magico, un’immagine capace di far sognare chi l’avrebbe vista. Rosenthal decise di immortalare il momento in cui i Marine statunitensi avrebbero issato la loro bandiera su Iwo Jima, sulla cima del monte Suribachi.

Prima di arrivare in vetta, incontrammo il sergente maggiore Louis Lowery, che aveva già fotografato il primo innalzamento della bandiera. Ma io e Rosenthal non ci arrendemmo: eravamo testardi e volevamo scattare la nostra foto.

Quando ormai stavamo perdendo le speranze, li vedemmo: sei Marines sollevavano una grande bandiera a stelle e strisce. Rosenthal si voltò, mi sollevò e fece il suo unico scatto. Poi lasciò il resto al destino. Non poteva sapere se avessi fatto il mio dovere: solo dopo aver sviluppato la pellicola avrebbe scoperto il risultato.

Raising the Flag on Iwo Jima - Wikipedia

Dentro di sé, Rosenthal pregava che io avessi catturato il momento giusto. Lui sperava, ma io sapevo di avercela fatta. Non avrei mai potuto deludere il mio Rosenthal.

Due giorni dopo, la nostra foto venne pubblicata. Divenne immediatamente celebre e ci portò persino a vincere il Premio Pulitzer, quel riconoscimento che avevamo tanto sognato.

Eppure, più guardavo quella foto, più mi rendevo conto di quanto l’uomo sia disposto a fare per conquistare un territorio. Alcuni non esitano a uccidere, anche innocenti, pur di ampliare i confini del proprio Stato.

Ma io, macchina fotografica, non posso parlare male degli umani. Senza di loro, non esisterei.

La mia più antica antenata nacque nel 1839 grazie a Louis Daguerre, un uomo. Pensate un po’: si chiamava dagherrotipo! Un nome così antico!

Il dagherrotipo funzionava in modo primitivo: una lastra veniva inserita nella macchina e doveva essere esposta alla luce per un tempo molto lungo. Poi, l’immagine veniva sviluppata con vapori di mercurio. Non bastava un semplice “click”: servivano ore, a volte giorni interi!

Rosenthal è stato fortunato ad avere me e non un dagherrotipo. Con una macchina come quella, non avrebbe mai potuto fotografare delle persone in movimento!

Nel 1884, poi, il genio di George Eastman rivoluzionò la fotografia con le prime pellicole in rulli. Creò una macchina simile a me: un apparecchio di piccole dimensioni, con un caricatore che permetteva ai fotografi di non doversi portare dietro attrezzature ingombranti.

La sua invenzione venne pubblicizzata con lo slogan: “Voi premete il bottone, noi facciamo il resto!”

Eppure, vi assicuro: per l’uomo premere un pulsante è facile. Ma per me, imprimere un attimo nell’eternità, è tutt’altro che una passeggiata!

“L’AEROPLANO” di Nicolò Pasqual, classe 3C, gennaio 2025

Il vento era fresco e mi accarezzava le tele delle ali. Il cielo era cupo, il paesaggio immobile, come se il tempo stesso stesse aspettando il mio momento. Mi sentivo strano, confuso, perfino responsabile di ciò che sarebbe successo quel giorno. Non volevo deludere Wilbur, che da lontano mi scrutava con attenzione, né Orville, che disteso sopra il mio corpo stava per guidarmi.

Ricordo il vento, il prato, la spiaggia in fondo alla collina: tutto sembrava perfetto. Accanto a Wilbur c’erano altri due uomini; non ricordo i loro nomi, ma nei loro occhi brillava la stessa curiosità. Lo sentivo.

Il rumore delle eliche, quel ronzio che ancora mi risuona nella mente, e il frastuono del motore, insopportabile ma spettacolare. E pensare che i miei inventori lavoravano in un negozio di biciclette… loro sì che erano dei geni.

Tornando a quel giorno, ero il protagonista assoluto. Tutti guardavano me, l’aeroplano. E poi… ecco, sono partito. Il legno si scontrava con il forte vento. Da immobile divenni movimento puro. Avevo paura. Sì, ero agitato: deludere i miei inventori davanti a quelle persone sarebbe stato imperdonabile.

Poi il tocco con la sabbia… un sollievo inimmaginabile. Ce l’avevo fatta! Dodici secondi volati via come un’eternità.

Vedevo gli sguardi felici intorno a me, sentivo l’entusiasmo. Ero soddisfatto. Ero io, il Flyer! Quei banali dodici secondi erano bastati per scatenare un momento di gioia assoluta.

Ah, dimenticavo: tutto accadde il 17 dicembre 1903. Fatemi pensare… sì, in North Carolina. Scusatemi, ma le date non sono il mio forte.

Eppure, sappiamo tutti che la felicità non dura per sempre.

Ora racconto quel giorno da dentro un magazzino. I fratelli Wright non hanno mai smesso di perfezionarmi, ma io non mi sento più lo stesso.

Il mio sogno era completare voli più lunghi, più alti, sempre più in alto. Ma non fu così.

Chissà se un giorno esisteranno aeroplani più potenti di me… più potenti del primo oggetto più pesante dell’aria a spiccare il volo con un motore.

“IO, MACCHINA FOTOGRAFICA” di Emma Zago, classe 3C, gennaio 2025

Quanto invidio gli esseri umani! Sono così ingenui e riflessivi allo stesso tempo. Io, invece, non posso permettermi di essere ingenua o di distrarmi. Devo concentrarmi sempre e solo su ciò che ho davanti, pronta a catturarlo in uno scatto.

Non per vantarmi, eh, ma senza di me non esisterebbero i libri illustrati, la televisione e tutte le infinite cose che contengono immagini. Diciamo che sono un oggetto fondamentale nella vita di tutti i giorni. D’altronde, esiste perfino una giornata dedicata a me!

Tutto ebbe inizio il 20 giugno 1826, quando un inventore francese, Joseph Niépce, creò un dispositivo capace di imprimere su carta i ricordi più belli. Da quella straordinaria invenzione sono nata io, la macchina fotografica.

Sono passati più di 190 anni dalla mia creazione, eppure oggi le persone mi danno per scontata. Mi trattano come un oggetto qualsiasi, dimenticandosi del mio ruolo nella storia, nel mercato e nell’arte moderna. Ma non importa. Non mi lascio scoraggiare. Devo solo essere grata di essere ancora qui, nel 2025, e di aver visto e immortalato il mondo per ben tre secoli.

Nella mia lunga carriera ho lavorato con grandi fotografi: Niépce, Daguerre e il mio preferito, Meyer. Con lui avevo un’intesa speciale, un legame forte. Mi voleva davvero bene. Eravamo inseparabili, come un cane e il suo padrone o come due anime gemelle.

Passavamo intere giornate nel suo studio, tra scatti e momenti di riposo. Ricordo bene la sua passione per gli occhi. Diceva sempre che gli occhi sono specchi dell’anima e che attraverso di essi si poteva cogliere l’essenza delle persone. Quanto mi mancano quei tempi!

Oggi, invece, mi ritrovo dentro un iPhone, nelle mani di una ragazzina costretta a stare in ospedale. La mia missione è diversa, ma forse ancora più importante: renderla felice.

Sono io che le permetto di seguire le lezioni e videochiamare amici e famiglia. Sono io che le consento di catturare i tramonti dalla finestra della sua stanza d’ospedale. Sono sempre io che la intrattengo con la TV quando il tempo sembra non passare mai.

Sì, sono io. Da trecento anni porto felicità e alleno la mente.

Perché le fotografie non sono solo immagini. Sono libri per l’anima.

“Io, TELEFONO” di Rachele Basso, classe 3C

Io sono un telefono, e per arrivare allo smartphone che conoscete oggi ci sono voluti secoli di evoluzione.

Tutto iniziò nel 1834, quando Antonio Meucci, a Firenze, iniziò a lavorare su di me: un dispositivo capace di trasmettere i suoni. Nel 1854, a New York, mi costruì per la prima volta e mi chiamò TELETTROFONO. Mi usava per comunicare con sua moglie, e continuò a perfezionarmi anche a Cuba. Il 28 dicembre 1871 ottenne il primo brevetto per quello che sarebbe stato il primo telefono. Il primo me!

Pochi anni dopo, il 30 dicembre 1877, iniziai a diffondermi anche in Italia, a Milano. Nel 1881 nacque il primo servizio telefonico, e la mia prima chiamata ufficiale fu indirizzata alla stazione dei pompieri di Porta Venezia. Fu l’inizio della mia lunga avventura.

Nel corso degli anni mi sono evoluto: inizialmente venivo usato con il centralino, gestito da donne abili e gentili che smistavano le chiamate. Poi, con il tempo, il centralino scomparve e le persone iniziarono a usarmi sia come telefono fisso che mobile.

Voi, piccoli esseri umani, non potete immaginare quanti discorsi ho ascoltato nel tempo: dichiarazioni d’amore, telefonate tra parenti che si raccontavano la vita, notizie importanti trasmesse da una parte all’altra del mondo.

Negli anni ’40 iniziai a diffondermi su larga scala e divenni un oggetto comune nei luoghi pubblici e negli hotel. Ma spesso ero chiuso con lucchetti, per evitare che venissi usato senza permesso.

Le cabine telefoniche divennero il mio regno. Per potermi usare, le persone inserivano un gettone, che consentiva una telefonata di quindici minuti. Se il tempo finiva, serviva un altro gettone, e poi un altro ancora. Con il tempo, i gettoni furono sostituiti dalle tessere telefoniche prepagate.

Per usarmi senza fili, però, gli uomini hanno dovuto aspettare gli anni ’90. Ero un bene per pochi, pesavo più di un chilo, la mia batteria durava solo 30 minuti e per ricaricarmi servivano dieci ore!

All’inizio degli anni 2000, ho subito un’altra trasformazione epocale: da semplice telefono sono diventato smartphone. Oggi mi usate per tutto e, a dire il vero, spesso vi dimenticate che sono nato per chiamare e mandare messaggi!

Il mio primo modello di smartphone fu Windows Mobile, ma nel 2007 arrivò l’iPhone e tutto cambiò: iniziò l’era dell’iperconnessione.

Eppure, il mio padre indiscusso resta sempre Antonio Meucci, anche se altri, come Alexander Graham Bell, hanno contribuito alla mia creazione.

Sono passato attraverso tre secoli di storia, eppure ancora oggi vivo nelle vostre mani. Sì, sono io, il telefono.

“Io, Aspirina” di Anna Koxhay 3C

L’aspirina è un farmaco affascinante dalle numerose virtù: combatte il dolore, riduce la febbre, agisce sull’infiammazione, interferisce con la coagulazione del sangue. Ma come si è arrivati a questa piccola grande compressa, ormai presente nelle case di tutti? Ecco la storia raccontata da Aspirina stessa.

Mi chiamo Aspirina. Sono piccola, rotonda, bianca. Nulla di speciale, vero?

Eppure, se sapeste quante storie ho cambiato, quante vite ho alleviato, capireste che non sono una semplice pastiglia.

Sono nata nel 1897, quando un chimico tedesco di nome Felix Hoffmann aveva una missione: trovare un rimedio per alleviare i dolori di suo padre, che soffriva di artrite. Il salice gli offrì una risposta, ma c’era un problema: la sua sostanza attiva irritava lo stomaco. Così, con pazienza e determinazione, Hoffmann mi perfezionò. Mi chiamò acido acetilsalicilico, ma presto tutti iniziarono a conoscermi con un nome più semplice: Aspirina.

All’inizio ero solo una pastiglia tra tante. Nessuno mi conosceva, nessuno sapeva quanto avrei potuto fare. Poi, qualcuno iniziò a prendermi per il mal di testa, la febbre, i dolori… e il mio potere si rivelò. Il dolore scompariva, e io diventavo indispensabile.

Mi osservavano con la stessa gratitudine con cui si guarda una fonte d’acqua dopo giorni nel deserto.

Col tempo ho scoperto di essere molto più di una semplice pastiglia. Sono diventata un rimedio essenziale per ogni tipo di dolore, dai muscoli alle articolazioni. Ma non solo: mi hanno scoperta utile anche per proteggere il cuore, per prevenire infarti e ictus.

Sono entrata in milioni di case, silenziosa e discreta, sempre pronta a fare il mio lavoro. Non mi fermo mai, eppure non chiedo niente in cambio.

Penso spesso a quanto sono cambiata nel corso degli anni. Sono nata in un laboratorio, ma sono diventata una compagna di vita per tante persone.

Non importa da dove vengo, né chi mi ha inventato: quello che conta è che sono qui, pronta a rendere la vita più leggera.

E io, Aspirina, continuerò a fare quello che so fare meglio: curare, alleviare, aiutare.

Un piccolo miracolo in una pastiglia.

“Io, Bicicletta” di Nathalie Salamon, classe 3C

Sono nata alla fine del Settecento in Francia e, per usarmi, bisogna mantenere l’equilibrio… proprio come nella vita. Chi sono? La bicicletta!

Quando mi hanno inventata, mi chiamavo celerifero ed ero composta da un asse di legno con due ruote. Per muovermi, il passeggero doveva spingersi con i piedi. Poi, un signore tedesco di nome Karl von Drais mi migliorò, aggiungendomi un manubrio per controllare la direzione. In seguito, qualcuno ebbe l’idea di montare dei pedali, così chi mi utilizzava non doveva più darsi la spinta con i piedi, ma poteva pedalare per avanzare.

Fu allora che diventai una macchina del tempo: pedalata dopo pedalata, potevo portare lontano chiunque mi cavalcasse.

Nacque così il velocipede, noto anche come penny-farthing. Questa versione di me era molto più pericolosa della precedente: la ruota anteriore era gigantesca, circa 1,5 metri di diametro, mentre quella posteriore era molto più piccola. Mantenere l’equilibrio era un’impresa! Gli incidenti erano frequenti e molte persone si rompevano le gambe cadendo rovinosamente.

Per fortuna, gli esseri umani non si arresero. Decisero di progettare una versione più sicura di me, chiamata safety bicycle, ovvero bici della sicurezza. La grande innovazione fu la trasmissione a catena, che permetteva di spostare i pedali più in basso e di trasmettere il movimento alla ruota posteriore.

Ma non era finita qui! Un ingegnoso inglese mi migliorò ulteriormente, costruendo ruote con tubi di gomma pieni d’aria, che mi permettevano di adattarmi meglio al terreno e di attutire i colpi. Grazie a questa invenzione, ebbi un successo straordinario: i ragazzi iniziarono a usarmi per gareggiare con gli amici, e presto nacquero le prime associazioni di ciclisti per promuovere il turismo su due ruote.

In Italia, tra il 1945 e il 1950, vissi la mia epoca d’oro: tutti mi volevano! Strade e città erano piene di biciclette, e io ero felice. Ma poi… qualcosa cambiò.

Perché non mi volevano più? Cosa avevo fatto di male?

Le automobili iniziarono a diffondersi e, improvvisamente, tutti preferirono loro. Io rimasi nell’ombra, dimenticata in tanti garage.

Per fortuna, la mia rinascita arrivò in California, con la nascita della mountain bike, una bicicletta più sportiva, adatta a tutti i tipi di terreno. Il ciclismo tornò a essere popolare e, il 31 maggio 1868, si tenne a Parigi la prima vera gara ciclistica.

Oggi ho più di 30 sorelle, tra cui bici da corsa, mountain bike, bici elettriche e pieghevoli. La bicicletta più costosa mai costruita vale un milione di dollari, e la velocità massima che ho raggiunto è stata di 296 km/h!

Dicono spesso che andare in bicicletta è una metafora della vita, e io non posso che essere d’accordo.

Ogni volta che qualcuno sale in sella, è come se iniziasse a scrivere la propria storia, una pedalata dopo l’altra. Il manubrio è la penna, la strada è il foglio bianco, e ogni curva è un nuovo capitolo della sua avventura.

Oggi sono tornata a essere amata in tutto il mondo. Sono lì, nelle case, nei cortili, nelle città, in attesa che qualcuno salga in sella e mi porti con sé.

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